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Due passi per Milano al giardinetto e il piccolo Ale trasforma tutto in una mini avventura fantastica…

Incontriamo poco il piccolo Ale da cui – separazioni non rare oggi – distiamo di solito circa 2000 chilometri… Così lo troviamo, ovviamente, cambiato e, dati i suoi cinque anni stentati, cresciuto, di volta in volta. Col nostro racconto lo avevamo lasciato in partenza da Cefalù e diretto a …Palamacia. Era la città in cui si rifugiava per esorcizzare l’abbandono di Palermo, di tutti i nonni e tutti i cuginetti, della casa dove aveva abbandonato la culla, mosso i primi passi, conosciuto i primi giochini. Si facevano congetture sugli etimi con cui quell’esserino dagli occhi già poetici aveva costruito quella parola, che indicava la sua personale Sangrillà. Era la città dei sogni, nascosta nell’acrocoro ideale, in quella verde valle in cui tutti probabilmente vorremmo vivere. Ale l’aveva già: era un po’ Palermo con la emme di Milano, la ci di Cefalù? Probabilmente, nulla di tutto questo. Era forse il palazzo incantato, sì Palamacìa, con dentro lui, immancabile re, e un piccolo borgo attorno, dove incontrare – prima o poi – l’azzurra principessa…

E che mi racconti di Palamacia”, gli avevo chiesto adesso. “Mah, sai, ormai sono qui a Milano…”

La risposta, pronta, perfettamente logica, stringente, non fosse stato perché conteneva la segreta dimensione del sogno, dà subito la dimensione del nostro “piccolo soggetto”. Urca, che elemento, dice una battuta non troppo raffinata qui a Milano.

Ma la passeggiata, di noi vecchi G. e L. col nipotino, prosegue verso il giardinetto col parco giochi, com’è norma che sia nella Milano dove i servizi  “ci sono”, ma …sempre Italia è! Baipassiamo il giardinetto andando verso la chiesa a vedere gli addobbi (i sepolcri?) nella vicina chiesa, una costruzione rivestita in mattoni di cotto rosso arancio, non grande ma armoniosa, in eclettico stile stratificato goticheggiante e risalente ad anni in cui questa zona, oltre il termine di corso Buenos Aires, appena rivolta a nord est, era uno o due secoli fa una periferia ai limiti della prima campagna di cui porta ancora qualche segno.

Nonna, come si raccoglie una rosa?” Chiede Ale arrotolando, più che arrotando, la erre, come fa lui… Con la sua solita aria da folletto e i riferimenti poetico letterari che una domanda del genere in un pomeriggio solatio può scatenare in un adulto, un elegante 45enne si gira di scatto per guardare curioso, appunto, l’esserino da cui proviene quella inattesa domanda. Già: “…non amo che le rose che non colsi, le cose che potevano essere e non sono state”, ammonisce G. Gozzano.

Con le forbici – risponde la nonna colpita da immediato attacco di prudenza – se no ti pungi. La rosa ha le spine, lo sai”. Perfettamente razionale.

Il 45enne accusa un fremito di delusione e riprende la marcia con un visibile colpo di reni, neanche fosse Renzi che vuol dare una smossa alla crisi nazionale. Chi ha detto che le donne sono più poetiche degli uomini cambi pianeta.

Sì, in chiesa c’erano gli addobbi atti a commuovere i bimbi e chi si immedesima in loro. Chi può dire che non ci sia tanto e di più nell’incredibile epopea di Gesù dal natale al Golgota, fino alla Pasqua? Siamo, però, nei giorni tristi ed, esattamente al posto del presepe, c’è qualcosa di simile che ritrae la scena del Cristo crocifisso fra i due ladroni. Non altrettanto bello, ma istruttivo. Ce n’è da raccontare anche a un bimbo! Ci proviamo con alterno, incerto, successo.

Ed eccoci nella villetta sull’immancabile panchina. Ale gioca, lanciando ciò che ha battezzato “frisby” dopo averlo trovato nella confezione dell’uovo pasquale: Il progresso: come facciano a darti tanto a così poco prezzo… Un tempo la cioccolata era oro. Meglio così, e un giocattolo semplice è, spesso, quello più amato. Adesso lo lancia. Noi l’avremmo preso per un ventaglio senza manico e lui ridendo all’inizio ne aveva fatto ridendo quell’uso: “guarda, nonna, è anche un ventaglio!”

Ma lì nel giardino noto che la voglia di Ale è quella di coinvolgere gli altri, sono piccoli conoscenti e qualcuno, mamme incluse, lo chiama per nome. Un paio di amici accettano di tirare indietro il “freesby”. Qualcuno lo fa anche meglio di lui. Ale gareggia con se stesso. Prima correva in giro “contro” i monopattini per provare a sé che li reggeva, li superava… Tutto è racchiuso nella sua invenzione, gli altri sono un feed back, quasi sempre inconsapevole.

Ma ogni racconto ha un finale a sorpresa. Almeno un po’, Vedrete. Ale tira dallo zaino un inusitato puzzle e, questa volta, la reazione razionale viene da me: “Ma senti – intervengo premuroso quanto, come mi accorgerò presto, perfettamente stupido – questo gioco si fa a casa, non al giardino…”

Lui: “manco mi guarda”. Prosegue. Esperienza di pedagogo – uno dei mieti tanti, troppi, mestieri – mi consiglia finalmente bene. Stare zitto e guardare. Tanta sicurezza merita fiducia!

Mentre compone il puzzle lui dà occhio in giro. Ah, ecco: la sua prima intenzione – noto – è, ancora, quella di coinvolgere. Guarda in giro i …passanti. Ecco, finalmente, che una sorta di Archimede Pitagorico giunge, biondo, aria da tedesco grassottello con occhiali che completano il personaggio. Ha l’aria dell’uomo di scienza quando prende anche lui in mano una tessera del mosaico, guarda il tutto da destra manca, si sofferma torcendo il collo con aria riflessiva. Alla fine: Eureka, i due filosofi da strada hanno concluso l’esperimento e …che cale se le tessere sono terminate, perché smarrite nel tempo, lasciando qualche vuoto? Il risultato certo si può dare per ottenuto. Quanta scienza già in quelle piccole testoline!

Ma non è finita. Scemato l’interesse, il piccolo Pitagorico si dilegua e l’aneddoto giunge al gran finale. Ale apre ancora una volta lo zainetto e tira fuori come dal cappello a cilindro di un piccolo prestigiatore da marciapiede il piffero che aveva “caricato” ovviamente a casa. Adesso ha l’aria dell’incantatore di serpenti: comincia a suonare con l’orecchio musicale presente, ma non eccellente, che ci ritroviamo in famiglia, appena due note ripetute più volte. Arringa così, affabilmente, la folla…

Ho il piacere di sapere che quel “ciufolo” gliel’ho donato qualche anno prima. Di apparente bachelite, così era una volta, di leggero color nocciola, un piccolo cartolaio me lo aveva venduto a Palermo: “quattro euro signore”. E dimmi cinque euro! Avevo esclamato io mentalmente, considerato che la moglie aveva un bimbo in braccio da crescere, annichilito da quella lezione di onestà e modestia…

Ma il racconto si chiude così, con l’ultima scena: Alessandrino che accenna alla sua mini coreografia, una lieve danza personale e le dita che si agitano sul piffero più del necessario. Guarda in alto, nel cielo, nessuno, niente in particolare. Cerca forse in quel pomeriggio solatìo, col sole che se ne va dietro il verde delle chiome degli alberi, la fortuna che potrà un giorno passargli davanti. Sarà forse un bel cavallo che rallenterà appena un attimo per lasciarlo montare in groppa. Chi sa che cosa veramente vorrà trovare a fine corsa, ma una serenità segreta sembra averla già trovata in sé. Ed è tanto.

Scaramacai

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