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Come lo statalismo inquina la cultura e la morale

Il dialogo fra Trump e Kim è - per molti versi - quello tra due mondi. Che avvenga (ne diamo merito al più libero Trump) è il segno dello sciogliersi, anche in Cina, del ghiaccio statalista. A livello antropologico, però, lo statalismo si è insinuato nella mente dell'umanità e ci vorrà tempo perché se ne liberi...

Settant’anni di statalismo accanito, ma forse di più (anche il fascismo…) fanno sì che nella cultura antropologica non si riesca a pensare se non identificando la somma dei cittadini e persino il singolo con lo Stato. Il cittadino non vive psicologicamente come parte di un gruppo sociale, di una comunità e di un territorio, bensì per la propria appartenenza allo Stato.

L’identificazione fra gli interessi dello Stato e quelli dei cives – grande errore tecnico economico e giuridico – crea un limite al “gioco delle parti” che, invece, dovrebbe diventare fisiologico e funzionare a dovere. Da una parte lo Stato con i suoi interessi e il proprio “cassetto della cassa”. Dall’altra i cives, con le loro esigenze, le loro richieste di servizi pubblici e, poi, il bilancio aziendale e quello familiare.

Assistiamo giornalmente alla confusione (sovrapposizione) fra il debito pubblico (deficit, disavanzo…) e la bilancia commerciale o bilancia dei pagamenti. Questa, relativa all’economia nazionale (reale o meno che sia, perché esiste 1 sola economia, quella reale) è attiva. Né potrebbe essere a lungo, per una intera nazione, al disotto del pareggio: le merci cesserebbero di pervenire dall’estero…

Non è vero che …abbiamo (o avremmo) mangiato i polli dei nostri eredi, perché quei polli li abbiamo pagati con il nostro lavoro e non esisterebbero più oggi in nessun caso, perché furono prodotti allora, quando si dice che “scialacquavamo”…

Al contrario, negli anni del “boom” si costruirono case e beni strumentali che assolvono tutt’oggi alla loro funzione (ruolo produttivo) dopo essere stati ammortizzati, in molti casi, più di una volta. Ci si chiede se ci saranno i soldi per le pensioni. Ci si dovrebbe chiedere se il sistema produttivo sarà in grado di produrre il necessario per mantenere il “welfare  degli anziani”. Il sistema produce di tutto e di più, deve distruggere il prodotto, ricorrere ai cartelli e al dumping, perché resta invenduto e i prezzi vanno a terra. Ben vengano i redditi di cittadinanza e simili: sono già indispensabili.

Chi non vuole oggi costruire per l’avvenire, anche oltre le prevedibili necessità, non ha presente che il futuro ci riserverà momenti di crescita anche esponenziale per l’uso di nuove fonti d’energia (geotermica, idrogeno, fusione nucleare), delle materie plastiche naturali (mais ogm) e di nuovi carburanti provenienti dall’agricoltura (mais, soia etc.).

Occorre progettare sempre “più del prevedibile” quando si progettano strade, ferrovie, ponti. Così come è avvenuto, a ragione o per caso, nella costruzione delle ampie strade di Parigi e Londra che servono solo da un centinaio di anni, ma vennero progettate e costruite in secoli precedenti.

In tutto questo, la presenza dello Stato dev’essere commisurata alle caratteristiche dell’intera realtà statale, che è cronicamente negata al progresso. Dev’essere lo Stato ad essere incentivato dalla Nazione (i cittadini) e non il contrario.

Nella mentalità statalista lo Stato si fa intero carico della educazione dei gruppi e dei singoli, che invece dovrebbe scaturire dalla crescita della cultura diffusa a livello sociale e civile. Lo stato pretende di allevare ed educare le giovani generazioni sostituendosi alla famiglia. Questa resta, invece, in regime libero, la cellula della società, guidata dalla morale individuale e dalla religione.

Lo statalismo comporta la ricerca di regole rigide e leggi draconiane, l’emergere del giustizialismo, il prevalere della morale delle regole su quella della coscienza. Ciò si traduce in un doppio danno: pratico, perché rallenta l’azione e culturale, perché limita l’articolarsi del pensiero.

La cultura deve, invece, muoversi liberamente quanto la scienza (ricerca scientifica), che dev’essere laica nella misura in cui dev’essere libera prima dai condizionamenti dello Stato e poi da quelli di ogni altro pregiudizio o ideologia.

Lo Stato deve ascoltare la voce della Nazione e trarne le debite conseguenze, pensando alle soluzioni, provvedendo prima ad amministrare bene se stesso e poi a dettare le regole del buon comportamento. Felice quello stato i cui tribunali siano poco impegnati. Per ottenere questo, le leggi devono scaturire dal comune pensare dei cittadini in fatto di morale e comportamento.

Lo statalismo nasce dalla filosofia di Platone. La Repubblica è un bel libro poetico che illustra il sogno di una Repubblica mai esistita realmente e che mai esisterà. Il concetto viene ripreso con forza da Hegel, che intendeva assecondare la dispotica volontà di dominio del Re di Prussia: non si muova foglia che il Re non voglia. Era la massima cara alle monarchie post medievali.

Tale intransigenza statalista è stata trasmessa alla “sinistra hegeliana” di Marx, Engels e Feuerbach. Dopo di che, con l’esplodere del sogno marxista, che scavalca l’onda dell’illuminismo e della rivoluzione francese, si trasferisce nelle democrazie odierne.

Lo statalismo è un male, come malato era il sogno platonico di un mondo “già perfetto da non guastare”, in conflitto con il problema del Male. Malato era il sogno rivoluzionario, che riteneva – sulla spinta dell’Illuminismo e di Platone – la ragione la sola medicina per la rapida guarigione da tutti i mali (sociali e culturali).

Platone, l’illuminismo e il marxismo non “storicizzano” il programma di illuminare (illuminer) la società civile e la politica: no, non basta accedere la luce della ragione… Essi non collegano il pensiero con la natura, né la filosofia con la scienza. Questa, però, era andata affermandosi con coscienza di sé dopo Galileo.

Insomma lo Statalismo è una tentazione diabolica, che assume, come Satana, la persuasiva immagine del serpente o quella fascinosa della donzella che tentò di sedurre persino Gesù nel deserto.

Da una parte il potere statale tenta di ridurre il mondo all’unità (è il peccato originale di Adamo che tenta di compiere un solo gesto per risolvere ogni problema), dall’altra il popolo accetta la protezione dello Stato sul quale scarica la summa delle proprie responsabilità come individui e come gruppo sociale. Ambedue sono peccati di egoismo e di pigrizia: lo Stato vuole trascurare la volontà popolare, l’individuo vuol  liberarsi dal peso delle decisioni.

E’ per questo che lo statalismo puro ha vita breve. Tale può essere considerata quella del Comunismo in Russia: meno di un secolo. Tale il sogno di una dittatura della democrazia, tipica della Rivoluzione francese, che ha svolto un ruolo nella storia, ma si risolse in un “fuoco di paglia”.

La repubblica e la democrazia devono ancora essere fondate. Così come la libertà individuale, sognata da Pericle in opposizione a Platone (suo zio) rappresenta un traguardo fra quelli da raggiungere nel corso della storia da parte della società umana.

Germano Scargiali

 

 

 

1 Comment on "Come lo statalismo inquina la cultura e la morale"

  1. salvatore scargiali | 6 Marzo 2019 at 6:47 | Rispondi

    L’ho letto e sono d’accordo ma c’è troppa roba per la gente comune.

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