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Primo maggio: “ma non è ora di cambiar musica?”

Festa del primo Maggio a Roma. Una classica. I motivi di disagio non mancano, ma le risposte appartengono a vecchi spartiti... Il vero colmo è che un società che produce di tutto e di più non faccia giungere il benessere a tutti, neppure nella 'nostra' realtà evoluta...

Il primo maggio è trascorso recitando copioni vecchi di mezzo secolo. E’ incredibile. Parlare di demagogia non è più di moda ma come definire la pantomima che parte dai vertici dello Stato, scende attraverso i sindacati e giunge fino alla piazza, alle logiche e perfino alle canzoni di quasi cento anni fa?

Ma un evidente vizio nazionale è che …tutto si trasformi in folklore.

La prima ‘topica’ è quella di considerare l’esistente – in questo caso la ricchezza e il lavoro – come qualcosa di statico, di esistente e presente in una certa quantità. Possibilmente, ai limiti del bastevole se non al di sotto…

Data la ‘disponibilità’ di queste quantità “presenti” di ricchezza e lavoro, ‘occorrerebbe’, nelle intenzioni, dividere “quel che c’è” in parti eque, tendenzialmente uguali.

Questa visione, assolutamente ‘ideale, idealistica, ideologica‘ è una rovina sociale e civile che dura ormai da anni.

Le obiezioni da opporre sono tante. Alcune evidenti: il livello di retribuzione considera da tempo, quanto meno, i meriti e i bisogni particolari di ciascuno. Ovviamente a ragione: in generale il principio “uguale per tutti” è foriero delle maggiori ingiustizie… Ma la ricchezza, dall’alba della rivoluzione industriale ad oggi, non presenta un solo elemento di staticità. Neppure l’oro ha più il ruolo tradizionale. La ricchezza è, invece, estremamente dinamica: si basa su un “circuitare”  veloce su più piani di tante componenti che si creano sul libero mercato.

Ma, senza usare parole difficili, sotto un altro aspetto la ricchezza si crea attraverso il lavoro d’impresa, cui tutti gli altri sforzi lavorativi (cultura, salute pubblica inclusi) possono solo concorrere. La ricchezza vera e propria nasce solo dall’utile aziendale: quello che altri chiamano profitto, Marx chiamava plusvalore e il fisco chiama valore aggiunto.

Qui giungiamo ad un punto cruciale: ciò che fa la differenza perché si realizzi l’utile aziendale è rappresentato da quattro fattori: l’idea insita nella produzione, la tecnologia applicata, l’organizzazione aziendale, il marketing… 

A questo punto, il concetto di plusvalore, come lo vedeva Marx, è certamente ‘trapassato’. In effetti, anche se non si rilevò immediatamente, ciò era vero già un secolo fa. Dagli anni ’30 e dal dopoguerra, lo diventa, però, ogni giorno di più.

L’economia di mercato è talmente efficiente che, nonostante i ‘profetici timori’ in senso contrario, ha resistito – sostanzialmente – a tutte le aggressioni che subisce dagli anni del boom ed ha portato ad un vistoso aumento del tenore di vita diffuso…

Fra queste aggressioni bisogna registrare quelle che avvengono da parte di chi detiene i massimi poteri in campo economico e finanziario: essi mirano a mantenere il controllo della situazione generale a scapito della crescita e del benessere generale. Il folle e bieco obiettivo sembra sia quello di monopolizzare “tutto ciò che è indispensabile” a livello planetario: a partire dal denaro. Tale fine lo perseguono anche sfruttando – ad arte – una logica che possiamo definire certamente ‘di sinistra’: quella prigioniera della già illustrata visione statica della ricchezza, del lavoro, ma anche – per inciso – dell’intera realtà del mondo (cosmologica). Come tale, è facile preda di ‘paure‘: una realtà statica è, infatti, tendenzialmente avara. Se il benessere si trova tutto ‘in un cassetto’ non si esaurirà prima o poi? Tale paura risale, in realtà, a tempi lontanissimi… Non è certo nuova: è insita da sempre nella mente di un parte dell’umanità…

E’ difficile non fermarsi a spiegare l’errore: coloro che vi cascano dalla convinzione che il mondo sia ‘quello che è‘, che – cioè – non possa e, quindi, non debba essere cambiato, né nella sostanza, né nella natura, né nella storia. Capovolgono Parmenide, che riteneva (influenzando Platone) che il mondo fosse già perfetto perché creato da un Dio perfetto. Ma, al contrario dei due grandi filosofi, di cui sposano la logica di base, pongono come meta possibile un traguardo prettamente materiale (materialismo storico). E dire che si auto definiscono progressisti: il progresso, secondo loro, è la marcia verso quel traguardo materialistico.

L’ideologia non li scoraggia neppure davanti al fallimento fragoroso (e costoso per il resto del mono) del socialismo reale, camuffato coma caduta del muro di Berlino…

Tale evento storico dimostra che, per quanti difetti abbia, l’economia di mercato non possa essere soppressa. Essa genera tanta ricchezza di modo che, comunque, l’intera comunità ne goda…

Ciò, pur con manchevolezze e ingiustizie, dovute ad inevitabili fattori di disturbo, che – però – non sono soltanto economiche…

Né si ritenga, come qualcuno ha osservato in questi giorni, che i successi nella produzione non si vedano immediatamente trasferiti ai dipendenti di una ditta. Ciò avviene, ovviamente, a medio e lungo termine a livello sociale.

Sacrosante le proteste dei lavoratori. Il problema,però, è ben a monte...

Sacrosante le proteste dei lavoratori. Il problema, però, è ben a monte…

La vera domanda da porre è la seguente: come mai in una società che produce di tutto e di più tanta gente non viene messa in condizione di consumare il necessario? L’errore è sempre quello di guardare ‘staticamente’ al denaro separandolo con una dicotomia dalla produzione, cioè dall’economia reale. In questo momento si parla, ad esempio, di soli numeri e si incolpano i cittadini di un debito che è stato contratto, invece, dallo Stato. Di fronte a tanti ‘non sensi’ è impossibile ragionare correttamente.

E’ evidente come non si riesca a far bilanciare la (quantità di) moneta con la consistenza dell’economia reale. E’ come se un individuo fosse ricco,ma per avarizia e pregiudizi rinunciasse a consumare… In tutto ciò l’UE, con l’euro ed altro ancora, ci mette evidentemente del suo.

In ogni caso, la ricchezza è dinamica, oggi più che mai. Si crea investendo in impresa e facendo circolare velocemente la moneta affinché divenga sempre di più, a fronte di beni (benessere) prodotti, venduti e consumati. L’UE fra le tante cose odia ed ostacola la velocità della moneta che, come si studia alle elementari, è un fattore inflattivo: l’UE azzera quella lenta inflazione che ci portò tutti al benessere nel dopoguerra, quasi fosse una malattia, pur sapendo come il semplice rischio del suo opposto – la deflazione – porti l’economia alla rovina.

Il consumismo va certamente regolato, sia agendo sul costume e la morale, sia ricorrendo a mezzi tecnici. Oggi, però, si fa troppo: si pubblicizza un’economia circolare che, limitando i consumi (se ci si riuscisse), limiterebbe la produzione e, di conseguenza, i posti di lavoro. Si parla troppo – altro non senso – di crescita compatibile, in un mondo che ancora bisogna “iniziare a colonizzare“. Vedi gli sterminati territori in Africa, America, Asia, ma perfino in Europa. Mentre continua crescere al redditività per ettaro e la coltura in serra tocca vertici di produzione impensabili 20 anni fa…

Sia chiaro che, se si rallenta il consumo, si rallenta la produzione e, quindi, l’auspicato moltiplicarsi dei posti di lavoro. Di conseguenza, occorre bilanciare il tutto in qualche modo e non agire sul fenomeno, isolando uno solo dei fattori in questione. Chiaro?

Far riferimento ad uno Stato che si supponga in grado di risolvere il problema del lavoro, garantendolo ai cittadini – lo dica o meno la Costituzione – è una gran ‘panzana‘. Moderna. Non l’unica. E’ un mero sogno,mera demagogia. Lo Stato, perché si moltiplichino (realtà in movimento) i posti di lavoro può soltanto stimolare l’impresa e la produzione. I mezzi li avrebbe, sempre che non ragionasse in modo egocentrico, antiquato, demagogico… Sostanzialmente atteggiato al vieto paternalismo.

Ci pare che la storia contemporanea abbia ampiamente e talmente dimostrato tutto ciò che ‘sentire ancora certi discorsi’ debba far venire il voltastomaco. Cosa che, non solo a chi scrive queste righe, avviene.

Germano Scargiali

Nota. Ciò che è auspicabile è che si giunga ad un vera cultura della reciproca considerazione e della collaborazione fra imprenditore da  una parte ed operai e impiegati dall’altra. Considerando, però, che nel mezzo c’è la categoria, oggi nevralgica, importantissima, dei manager, solitamente pagati benissimo (e non può essere diversamente). E’ la considerazione dell’interesse comune che non è nuova, anzi vanta esempi già lontani nel tempo. Purché la classe operaia e i sindacati non si illudano di poter insegnare il mestiere agli imprenditori e questi non credano di poter conoscere da sé tutte le esigenze dei lavoratori. (G.S.)

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