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Pamela Villoresi Una walkiria per cavalcare il Biondo

Il Teatro Biondo di Palermo, con la sua mole un po’ austera e gli ambienti carichi di storia che incutono una certa suggestione al pensiero che si tratta di uno dei templi della cultura cittadina, sembra rimandare ai tanti eventi che lo hanno visto protagonista. Dietro le quinte risuonano ancora le voci di chi aveva calcato quel palcoscenico una volta, forse inconsapevole di quello scorrere del tempo che tutto inesorabilmente macina. Tutto o quasi perché sulla scena ora, d’incanto, tornano a rivivere i drammi e le commedie di un tempo. Tutto, nel teatro: palcoscenico, platea, palchi, camerini, corridoi, improvvisamente si anima quasi a ricordare l’eterno perpetuarsi della storia umana.

Pamela Villoresi, per contrasto, ci appare invece come una creatura di luce. Cordiale, disponibile, alla mano, con lei sembra di trovarsi con un’amica di vecchia data anziché con la direttrice di un teatro, con una professionista di fama, con chi ha calcato da protagonista i più grandi teatri d’Italia e recitato al cinema o in televisione con i mostri sacri nazionali. La bionda attrice italo tedesca ci dice di aver stabilito subito un feeling con la città siciliana, così ricca di storia e di fascino, in cui vive e lavora già da qualche anno, una città dai contrasti a volte stridenti, ma che offre tanto come calore umano e come clima, con il suo mare a portata di mano, un mare che le consente di praticare anche lo sport che ama, il canottaggio, presso il Club Roggero di Lauria.

Entriamo, così, facilmente in sintonia con Pamela Villoresi e l’intervista scorre, poi, con naturalezza e senza intoppi. Partiamo, così, con la prima domanda:

Palermo, una città dove gli opposti si incontrano e scontrano senza arrivare a eludersi a vicenda. Come fa un’attrice famosa come Pamela Villoresi a vivere nel nostro caos quotidiano?

“Con discreta difficoltà, questa è una terra bipolare, la zona di mezzo, la zona di conforto non esiste. Qui si passa dalle sparate alle spalle, dalle calunnie, dalle guerre interne ai gesti di affetto e di amicizia più imprevedibili, come il dono di una marmellata o una sorpresa tanto più gradita quanto più inaspettata. Proprio quando pensi di non farcela ottieni, invece, cose fantastiche. E’ stato così per la scuola di recitazione: abbiamo raggiunto la cifra record di 3750 studenti, abbiamo fatto attività nei quartieri e stretto tante amicizie, ma amicizie vere, di quelle per la vita. Un altro risultato veramente straordinario l’abbiamo raggiunto con il Dams (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo di Palermo), che oggi è diventato il Primo Corso di laurea in Italia. Basti pensare che a Milano e a Torino ancora non ci sono riusciti, lì hanno ancora solo diplomi.”

Lei ha recitato a fianco dei più grandi attori italiani, da Gassman a Manfredi e con i più celebri registi, come Strehler o Bellocchio: con quali si è trovata più in sintonia?

“Indubbiamente Strehler è stato il maestro e il padre quando avevo solo diciotto anni e ho recitato nelle ‘Baruffe chiozzotte’ di Goldoni. Ho imparato pure tantissimo da Nino Manfredi, amava studiare e nel lavoro era un vero perfezionista. Devo dire che, comunque, ogni esperienza arricchisce”.

Il suo successo professionale, raggiunto – si può dire – in tutti i campi dello spettacolo: teatro, cinema, televisione, rappresenta anche un successo delle donne e certamente costituisce uno sprone per le giovani attrici di oggi. Le sembra che sia aumentato il protagonismo femminile?

“Ancora siamo lontani. Basti pensare che io sono appena la sesta donna in Italia che fa la direttrice di un teatro. Non c’è ancora parità di impiego, anche se sta scendendo in modo verticale, per esempio nel ruolo di regia. Qui a Palermo siamo quasi alla parità uomo-donna, ci sono tante attrici bravissime. Abbiamo un 70 % di scritturati siciliani e quasi la metà sono donne. Lo spettacolo di teatro-danza di Aurelien Bory, ‘Invisibili’, che si collega idealmente a ‘Palermo Palermo’ di Pina Bausch, ha visto in scena ballerine e acrobate, tutte siciliane. Abbiamo in cartellone anche Clitennestra, con la brava attrice palermitana Isabella Ragonese nel ruolo di protagonista.”.

Tra i tanti ruoli interpretati: a quale si sente maggiormente legata e a quale, invece, oggi, rinuncerebbe?

“Penso che ci sia sempre qualcosa di noi in ogni personaggio, anche in quelli negativi, perciò no, non rinuncerei a nessuno. Io, poi, nel rappresentarli mi vendico perché per renderli verosimili mi immedesimo in alcune persone reali che ho conosciuto e le rendo particolarmente antipatiche. Un esempio è Didone, la regina cartaginese perdutamente innamorata dell’eroe troiano, anche se farà, poi, una fine tragica. All’inizio, quando conosce Enea si mostra molto vanitosa, gigiona, piena di sé, insomma un personaggio per nulla simpatico che, comunque, mi è piaciuto interpretare”.

Passare dalla recitazione alla direzione di un teatro non dev’essere semplice, che cosa l’ha spinta verso questa strada e com’è riuscita a conciliare la sua vita privata coi suoi impegni professionali?

“Avevo già diretto quattro Festival: “Ville Tuscolane”, Festival dei Mondi, “Arie di mare”, “Divinamente Roma”, con appendice “Divinamente New York”, oltre ad aver fatto parte dei Consigli di amministrazione al teatro Argentina di Roma e al Metastasio di Prato, quindi avevo già un’esperienza nel campo. A Palermo, per dirigere il Teatro Biondo, mi hanno chiamata per le mie capacità tecniche, sviluppate durante le mie precedenti esperienze professionali, per questo hanno insistito molto per convincermi a partecipare al bando. Io all’inizio ero piuttosto scettica perché non credevo che avrei vinto, e non perché non avessi le competenze necessarie, ma perché pensavo che, in genere, per certe cariche si viene scelti per altri motivi, più in base a lottizzazioni politiche piuttosto che per meriti professionali. Probabilmente sono riuscita a vincere io perché i due schieramenti che si contrapponevano si bilanciavano perfettamente. Devo dire che mi ha convinto mia figlia facendomi notare che spesso i candidati di due opposte fazioni politiche pongono veti reciproci mentre la scelta finisce per ricadere su una persona che non è legata a nessuna parte politica e che può presentare soltanto le sue competenze tecniche e professionali.”

Il Ficus Magnolia della locandina Radici, contenente il programma del Biondo per la stagione in corso, simboleggia la ramificazione ed espansione della cultura, come è lei stessa a spiegare. II teatro, come del resto le altre forme di spettacolo, deve rinnovarsi di continuo, guardando alle trasformazioni sociali in atto, ma senza perciò perdere quel legame col passato che lo caratterizza, in concreto come si può catturare l’interesse delle nuove generazioni?

“Il Cartellone di quest’anno comprende sia opere classiche che nuove per venire incontro ai gusti del pubblico e accontentare un po’ tutti. Per quanto riguarda gli adulti ci accorgiamo che di solito si mostrano interessati anche all’innovazione. I giovani, invece, cerchiamo di coinvolgerli tramite delle strategie, ad esempio, andando in giro nelle scuole, parlando con loro, oppure cercando di conoscerli e di coinvolgerli nella produzione di video o di composizioni artistiche. Abbiamo ora un nuovo progetto per le scuole, chiediamo ai ragazzi di produrre dei video dal titolo ‘Quel giorno insieme…’, vogliamo che raccontino una storia in cui ognuno di loro si sia trovato con una persona che ora non c’è più. Stiamo coinvolgendo i giovani in modo creativo e desideriamo che capiscano che il teatro parla anche di loro, ma per ottenere questo risultato dobbiamo adottare un linguaggio adatto.”

Non le sembra che al giorno d’oggi vi sia una lacuna nei nuovi testi teatrali e i registi ricorrano spesso ai testi tradizionali, come Goldoni, Shakespeare e Pirandello. Lei non sente l’esigenza di rinnovare il repertorio teatrale con nuovi testi più aderenti alla realtà di oggi?

“Mi piace leggere opere nuove, conoscere aspetti e persone di questa città, mi sono accorta che ci sono molte donne che scrivono e pubblicano opere interessanti. A parte le ormai famose Agnello Horby o Stefania Auci, ce ne sono tante altre che meriterebbero maggiore notorietà come Beatrice Monroy o Rosmarie Tasca d’Almerita.”

Com’è riuscita a conciliare la vita privata con la carriera professionale?

“Io ho perso mio marito, il direttore della fotografia Cristiano Pogany, quando eravamo entrambi ancora molto giovani e con tre bambini. Collaboravamo nel menage domestico e ci alternavamo nello stare coi figli, spesso li portavamo in viaggio con noi. Forse, a volte, li abbiamo costretti a sacrificare qualcosa, ma in compenso li abbiamo fatti diventare cittadini del mondo. Oggi sono nonna e ho due nipotine con cui, quando posso, mi piace giocare e andare in giro. Sono venute a trovarmi qui a Palermo proprio in questi giorni, le ho portate sulla spiaggia di Mondello, al Museo delle marionette, ad assistere all’opera dei pupi e hanno assaggiato pure le pupe di zucchero. Sono state entusiaste di questa vacanza perché hanno trovato il sole e il bel tempo e hanno potuto divertirsi.” 

Quando si raggiunge l’apice del successo, come nel suo caso, che cosa può ancora suscitare interesse e far accettare nuove sfide?

“No, io non credo di avere ancora raggiunto l’apice del successo, amo il mio lavoro e continuo ad impegnarmi nello studio e nella ricerca di nuovi copioni o di nuove opere. Per quanto riguarda le nuove sfide mi piace dare opportunità ai giovani. Io ho avuto la fortuna di averle, ma mi chiedo: se non le avessi avute, avrei fatto ugualmente l’attrice? La carriera mi ha dato tanto, ma non mi sento ancora arrivata. Mi piacerebbe continuare il mio lavoro qui a Palermo, ma non so se l’incarico mi sarà rinnovato. Ho un rapporto bello con questa città, amo il mare e mi piace praticare il canottaggio che mi diverte e mi rilassa. Nel periodo del covid mi è capitato addirittura di chiedermi: “e se morissi qui, in questa città?” E di rispondermi: Ma sì, sarebbe bello morire a Palermo”.  

Lydia Gaziano Scargiali

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