Ma lo Stato sa fare il suo mestiere?

E a farne le spese sono i cittadini

Non è un fenomeno recente, lo Stato italiano, nelle sue varie componenti, mostra parecchie criticità. Amministrazioni pubbliche, forze dell’Ordine, magistratura, sanità, scuola, servizi rivelano infatti molte carenze.

Probabilmente l’affermarsi dello statalismo, con tutto quel che comporta riguardo a cattiva amministrazione, sprechi, assenza di servizi e declino del welfare ne ha la maggiore responsabilità.

Si è fatto dello Stato un totem e questo poi si è trasformato in un mostro.

All’invasiva e immotivata espansione dell’azione dello Stato in tutti i settori si è unita, poi, anche l’eccessiva conflittualità del mondo politico, ma i cittadini, a un certo punto, si sono resi conto che tali scontri “epocali” non sono finalizzati a rendere il Paese migliore, ma sono solo lotte di potere, infatti a votare sono ormai appena la metà dei cittadini.

Il disimpegno politico, però, non è certo un bene, può infatti avere esiti rischiosi per la quiete pubblica perché crea un’area di vasto dissenso al di fuori delle istituzioni democratiche, insomma può provocare rivolte, colpi di stato, ascesa di forze dittatoriali, ma occorrerebbe uno sforzo titanico per cambiare le cose: bisognerebbe dare spazio alle voci più autentiche della cultura, agli esperti dei vari settori, solo così potrebbero emergere i veri nodi da sciogliere insieme alle possibili soluzioni.

Se centrodestra e centrosinistra, al di là delle differenze, collaborassero per il bene del Paese si potrebbe almeno salvare l’impianto democratico, altrimenti il suo destino sarà segnato.  

Ma in tutto questo quale parte hanno svolto i sindacati?

I sindacati, nati al tempo della rivoluzione industriale, quando la società italiana aveva un certo di tipo di struttura, sono poi rimasti fermi a quell’impostazione, adeguandosi poco o nulla ai cambiamenti nel frattempo intervenuti.

Una volta c’erano, infatti, i grandi stabilimenti industriali che impiegavano migliaia di lavoratori, oggi, invece, questi si sono notevolmente ridotti di numero, inoltre, sono nate numerose attività nel settore terziario che danno lavoro a una fetta consistente della popolazione, per cui il mercato del lavoro non corrisponde più a quello di una volta. Essendo, però, le strutture sindacali rimaste le stesse, oggi si assiste sia alla mancanza di rappresentatività da parte di alcune categorie di lavoratori che non riescono a farsi ascoltare, sia alla scarsa autorevolezza dei vertici sindacali non più appoggiati dalla base.    

Oggi si parla spesso di declino dei corpi intermedi dello stato, una decadenza che ha contribuito a rendere lo stato più debole.

“I corpi intermedi si collocano su una linea ideale che parte dal cittadino e arriva alle istituzioni, vale a dire sono le organizzazioni legittimate a rivendicare gli interessi dei cittadini in nome e per conto delle rispettive comunità. Sono dunque organismi di prossimità al di fuori delle sedi istituzionali, capaci di creare reti in modo autonomo dalla sfera statale, sebbene possano permanere alcune sfumature istituzionali nelle loro attività. I corpi intermedi – agendo da collettori di specifici interessi di cittadini e come organizzazioni rappresentative – hanno un potere d’azione più ampio rispetto a quello dei singoli cittadini. Dovendosi definire quale sia la caratteristica dei corpi intermedi, bisogna risalire a vario titolo alla funzione sociale e locale, e se questa sia esclusivamente o meno localizzabile in base alle caratteristiche del territorio, della popolazione e del sistema socioeconomico. Sarà così corpo intermedio tanto l’associazione di consumatori, quanto il comitato di lotta per la casa, gli enti no profit del volontariato e del Terzo Settore, ma anche il sindacato. Questi ultimi sono comunità segnate da un’uguaglianza autoregolata di libertà e diritti, portatori di interessi legittimi (o Stakeholder) e praticanti una funzione sociale, dotati di facoltà di direzione e coordinamento dei propri fattori (capitale e lavoro) ad un fine di interesse collettivo (bene comune). Wikipedia”

Vogliamo pure aggiungere che un’altra gamba (molto importante) di sostegno allo Stato è rappresentata dal Terzo settore, cioè dall’associazionismo, spesso legato alla Chiesa cattolica, capace di creare reti di supporto a favore dei ceti più svantaggiati e senza il cui prezioso apporto la situazione economica del Paese sarebbe sicuramente peggiore.

Col tempo, l’azione esercitata in modo positivo da partiti, sindacati e organizzazioni similari sulla società e sul governo si è ristretta e questi organismi si sono ridotti a meri luoghi di potere. A farne le spese sono state, poi, le nuove generazioni che, intraprendendo spesso professioni autonome, non sono state adeguatamente sostenute da un sistema che, di fatto, non ne riconosceva né l’esistenza né la validità. Come uscirne? Privatizzando tutto o continuando a mantenere un apparato statale per i cittadini che fosse economicamente sostenibile, ma nel contempo anche ben funzionante?

La domanda è: si può raggiungere un equilibrio tra Pubblico e Privato?

Gli statalisti, d’altronde, non hanno sempre torto. Le privatizzazioni a volte non risultano convenienti per lo Stato stesso o risolutive dei problemi. E’ successo che sono state regalate imprese floride a capitalisti senza scrupoli e senza idee, che non hanno apportato vantaggi né in qualità di servizi né in rapporto al sistema.

Le colonne che sostengono lo Stato sono i suoi funzionari, gli impiegati, gli insegnanti, il personale sanitario, quale ruolo bisognerebbe dare a questa grande struttura, come renderla più agile e funzionale?

Crediamo che, intanto, occorrerebbe ridare fiducia e autorevolezza a chi lavora nello Stato, premiando il merito (quello vero), motivando i lavoratori, non solo tramite adeguate remunerazioni, ma anche per il ruolo che svolgono: chi non si sente stimato, appoggiato, sostenuto perde la voglia di lavorare, di impegnarsi, a volte ha persino paura di essere punito se si impegna troppo (purtroppo è questa la realtà italiana), ma più che con le punizioni (che spesso lasciano il tempo che trovano) occorrerebbe intervenire con la riorganizzazione degli uffici e dei servizi, un grosso lavoro, ma non impossibile.   

Va notato, però, che uno Stato che fosse solo autoritario senza autentica autorevolezza non potrebbe mai riuscire nello scopo di migliorarsi perché non avrebbe molti sostenitori e allargherebbe, invece, il fronte dei contrari: infatti pure l’impiegato più onesto e capace avrebbe paura di uno stato severo che, alla fine dei conti, si rivelasse anche ingiusto. Pensare che sia sufficiente dare più forza alle istituzioni per rendere uno stato più funzionante è solo una pia illusione, occorre anche il consenso e la collaborazione dei cittadini. Del resto, le dittature prima o poi crollano perché sono Stati forti solo all’apparenza: quando scoppiano delle gravi crisi, per motivi interni o esterni finiscono per crollare (vedi Unione sovietica).

E’ pure vero che le democrazie sono sistemi politici piuttosto deboli rispetto alle autocrazie, ma, d’altronde, hanno in sé delle forze sconosciute agli assolutismi (vedi, in passato, la vittoria delle città greche contro il colosso persiano).

Che dire, poi, dei condizionamenti che lo Stato subisce da parte delle lobby?

Uno dei grandi nemici dello stato che funzioni è il cosiddetto “turbocapitalismo”, da non confondersi col capitalismo delle origini.

Oggi, infatti, a livello mondiale, si è imposto un tipo di capitalismo onnivoro che dilaga, prevaricando su tutte le altre attività umane: dire che la sua espansione abbia solo esiti positivi non sarebbe accettabile. In pratica, se, di regola, nel capitalismo la concorrenza agisce da forza moderatrice, quando, invece, prendono il sopravvento sistemi monopolistici ciò non avviene e  chi riesce a imporsi nel mercato schiaccia i concorrenti con metodi non sempre corretti. Non bisognerebbe, perciò, crediamo, distruggere il sistema capitalistico, che ha la sua validità in quanto a produzione di ricchezza, ma, piuttosto, regolarlo tramite leggi e normative che impedissero la formazione di monopoli o trust (cosa che, in parte, già avviene).    

Certamente, però, approvare e far rispettare leggi che mirassero a proteggere la concorrenza (e, di conseguenza, anche i consumatori) non è facile, dato il grande potere della finanza, legata ai gruppi più potenti.

I sostenitori di una politica di tipo socialista, d’altronde, cadono nell’illusione di potere ottenere, tramite scelte populiste, una maggiore giustizia in termini di salari e servizi, ma si sbagliano perché, sotto l’ombrello socialista, in realtà, si rifugiano proprio quei monopolisti che arrecano, poi, i danni maggiori allo Stato, sia sfruttandone le risorse sia proponendo politiche demagogiche apportatrici solo di ulteriori perdite.

Vie di uscita? Poche e di non facile attuazione.

Fondamentalmente, occorrerebbe ridare possibilità di crescita al ceto medio, colpito in questi anni da politiche fortemente avverse alla sua stessa esistenza. Se, ancora, negli anni sessanta, era possibile, in Italia, avviare un’attività, farla crescere, fare degli investimenti, oggi, ciò è diventato estremamente difficile. Infatti, non viene ostacolata solo qualche attività particolare, perché diventata ormai superata dai tempi o per qualche altro ragionevole motivo, ma in pratica vengono ostacolate tutte, sia le piccole sia le grandi. Accade, poi, che lo Stato, oltre a gravare su chi produce con una burocrazia esacerbante, risulta perennemente superindebitato e imponga tasse sproporzionate proprio a quel ceto medio che non si stanca mai di impoverire.

Se lo Stato fosse in grado di amministrarsi almeno come sa fare il più piccolo bottegaio già saremmo un passo avanti. Le risorse di cui un Paese come l’Italia dispone sono immense e non ci sarebbe neppure bisogno di assumere qualche grande manager per superare la crisi che stiamo attraversando, basterebbe un po’ di buon senso.

In verità, nei primi decenni del nuovo secolo, in Italia, ci sono state due novità interessanti sul fronte politico, ma non hanno portato fino in fondo agli esiti sperati.

La prima è stata Forza Italia, guidata da Berlusconi, che ha dato un forte scossone allo stagnante sistema politico italiano, producendo alcuni risultati positivi, ma senza riuscire a svecchiare realmente il paese, del resto, poi, le forze ostili hanno finito per prevalere.  Ma, a parte le difficoltà che un simile cambiamento comportava e l’azione di forte contrasto degli oppositori, il limite della politica berlusconiana probabilmente è stato anche quello di non riuscire a coinvolgere maggiormente la popolazione a favore del cambiamento proposto.

L’altro tentativo, piuttosto interessante, fu, invece, quello di Renzi, che era sostenuto dallo stesso Berlusconi. Si trattava di modernizzare il Paese tramite l’azione di un socialismo moderato, non ostile alle aziende e alle professioni. Purtroppo neppure Renzi, partito con le migliori intenzioni, riuscì poi a mettere in pratica quel programma politico che sembrava rispondere alle attese di molti italiani. 

Infine, a parziale difesa dei politici di casa nostra, di oggi e di ieri, va pure detto che sono costretti a sottostare ai dictat della Ue, decisioni che ostacolano, sistematicamente, le iniziative della classe media italiana.

Lydia Gaziano Scargiali

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