Conflitto israelo-palestinese Tante manifestazioni pro palestinesi, ma la sinistra li ama davvero?


Le varie manifestazioni tenutesi in questi giorni in Italia pro Palestina hanno certamente, dalla loro, una valida giustificazione nel desiderio di proteggere un popolo che, ora, potrebbe subire la dura reazione di Israele, in conseguenza delle atrocità commesse da Hamas, lo scorso sabato, nei confronti di tanti civili innocenti, ma non, perciò, ci devono trarre in inganno: le sorti del popolo palestinese, infatti, solo apparentemente sono in cima ai pensieri di chi manifesta e, per rendersene conto, basta ripercorrere le varie fasi del lungo conflitto tra le due popolazioni semitiche.

E’, infatti, successo che il popolo palestinese, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, è stato sacrificato dai suoi teorici sostenitori sull’altare di interessi altri e lo stato palestinese, che, a parole, si voleva far nascere, di fatto, non è mai nato e non certo per colpa di Israele.     

Le vicende storiche nel territorio del Medioriente sono

varie e complesse, le semplificazioni di certo non giovano.   

Senza voler risalire al tempo della Giudea romana, che comportò la diaspora degli Ebrei, occorrerebbe, innanzi tutto, distinguere le vicende politiche da quelle religiose perché, anche se collegate tra loro, non coincidono esattamente.

Ad esempio, i Romani, che governavano un grande impero, lasciavano, insieme a una certa autonomia, anche libertà di culto ai popoli conquistati e se, poi, arrivarono a distruggere il tempio di Gerusalemme, lo fecero solo a causa delle numerose rivolte che dovettero fronteggiare e non per motivi religiosi. Non vogliamo qui dare giudizi etici né a carico dei Romani né degli Ebrei. Alcuni secoli dopo, quel territorio fu conquistato dagli Arabi, che lo governarono per circa due secoli.

Ci furono, poi, la conquista da parte dei Turchi Selgiucidi e le crociate. Riguardo, poi, a queste, tanto discusse, le cose non andarono affatto come si solita raccontarle. Intanto, il giudizio storico non dovrebbe mai prescindere dal contesto in cui i fatti avvengono e la scintilla iniziale, in questo caso, fu provocata dal divieto imposto ai cristiani, da parte dei Turchi, di recarsi in pellegrinaggio nei Luoghi santi di Gesù. Quindi, prima, sotto la dominazione araba, di religione musulmana tanto quanto i Turchi, i cristiani non avevano avuto alcuna proibizione di questo tipo e, di conseguenza, non c’era stata nessuna crociata. Che poi le crociate, iniziate soprattutto per motivi religiosi, siano degenerate e diventate qualcosa di diverso a causa di lotte, interessi e contrasti vari, non solo tra cristiani e musulmani, ma anche tra altri schieramenti interni ai due gruppi e contrapposti tra loro, è un altro discorso, che esula dall’argomento in questione. A partire dal 1500 circa, ai Selgiucidi succedono gli Ottomani. L’impero turco, dopo un iniziale periodo di prosperità, soprattutto al tempo di Solimano il Magnifico, decadde. La politica illuminata di questo sovrano aveva favorito il ritorno degli Ebrei in Palestina, che erano aumentati considerevolmente di numero.    

La Palestina, all’epoca, era molto estesa (comprendeva, infatti, Siria, Libano, Giordania, Iraq, Israele e attuali territori palestinesi) e resterà in mano ai Turchi, sia pure formalmente, fino alla fine della prima guerra mondiale, cioè fino allo smembramento dell’impero turco. Successivamente, nel 1922, verrà divisa in due mandati, uno francese, a nord, con Siria e Libano e uno, britannico, a sud, con Israele, Giordania e territori palestinesi.

In realtà, occorre ricordare che gli Ebrei, nel corso dei secoli, non avevano mai abbandonato l’aspirazione a tornare nella loro terra di origine e, soprattutto a partire dalla fine dell’ottocento, si diffuse, tra di loro, il Sionismo, un movimento politico-religioso creato appositamente per raggiungere tale scopo. Il popolo ebraico, sparso nel mondo, iniziò ad acquistare terreni in Palestina e a coltivarli. La seconda guerra mondiale, con le persecuzioni naziste, diede ulteriore forza al Sionismo e pose la questione all’attenzione internazionale.

Così, nel 1948, l’Onu elaborò un piano di partizione dei territori per far nascere due stati, uno ebraico e uno palestinese. Israele accettò, i palestinesi no. Subito dopo, i cinque paesi che circondavano Israele l’attaccarono, ma persero, così Israele occupò un terzo dei territori prima assegnati ai palestinesi e questi non videro mai nascere il loro stato.

Per dovere di cronaca, va anche ricordato che lo stato di Israele, almeno in un lontano passato, era esistito realmente, quello palestinese, invece, no perché le popolazioni che abitavano quei territori non avevano mai avuto uno stato autonomo, ma erano dipese, politicamente, dall’impero turco o da altre dominazioni.

Avevano, però, avuto nel 1948, la grande occasione di trasformarsi in uno stato indipendente perché la risoluzione dell’Onu prevedeva la creazione di due stati: gli Israeliani la accettarono, i palestinesi, invece, spinti in ciò, dai loro alleati arabi, la rifiutarono.

Da qui la guerra, la sconfitta e l’origine della catastrofe, chiamata “Nakba”. In conseguenza della perdita dei territori, che in un primo tempo l’Onu aveva loro assegnato, la maggior parte dei palestinesi scapparono, tranne un 20% che decise di rimanere e che, oggi lavora, è integrato, gode degli stessi diritti degli ebrei, vota e ha una rappresentanza in Parlamento.

Vogliamo parlare, adesso, invece, delle condizioni in cui versano i palestinesi fuggiti, allora, da Israele?

Dopo settanta anni, vivono ancora nei campi profughi, senza lavoro né case, né servizi. Non si pensi, poi, che non sia affluito del denaro (e tanto) a favore di questa popolazione, ma è più che legittimo chiedersi che fine abbia poi fatto.  

Tornando, poi, ai tragici fatti di questi ultimi giorni, non si può non accorgersi che, anche in questo caso, a far male ai palestinesi sia proprio Hamas, l’organizzazione terroristica che di fatto “governa” la Striscia di Gaza e che, proprio in questi giorni, sta bloccando la popolazione palestinese che cerca di fuggirvi, prima che arrivi l’attacco israeliano.

In conclusione, la storia ci dice che gli odi tra i popoli, per motivi etnici, religiosi o di altro tipo, certamente esistono, ma possono essere superati, o almeno attenuati, se si lavora a questo scopo, ma l’ostacolo alla pace, forse, non è tanto di ordine culturale, ma più probabilmente incidono maggiormente interessi di tipo politico o economico, non solo a livello locale, ma soprattutto internazionale.

Si suole dire che “il male, spesso, viene da lontano” e qui l’inerzia (o gli errori) della Ue, in realtà manovrata dagli Usa, hanno giocato un ruolo fondamentale nella mancata risoluzione dei problemi mediorientali ed è pure lecito chiedersi: gli aiuti Ue ai palestinesi che fine hanno fatto?

Le colpe dei conflitti vanno imputate più ai potenti, che governano il mondo, che ai popoli. I nazionalismi, infatti, hanno pure le loro ragioni e non sono la fonte di tutti i problemi, come molti credono. Se ciò, da una parte, può restituire un po’ di speranza anche in un momento così tragico, è pur vero che il cammino verso la pace è tutto in salita e lastricato di molte spine.    

Occorre, infatti, una grande cooperazione internazionale per sciogliere i nodi dell’intricata vicenda e spianare la strada verso un futuro di dialogo (oggi impossibile) e di crescita condivisa.

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