Politicamente corretto e libera espressione andranno mai d’accordo? Può una difesa dei diritti disancorata dalla realtà concreta garantire realmente gli esseri umani?

Un breve excursus per capire quanto sta accadendo nel mondo. Che politically correct e libera espressione non vadano d’accordo è ormai palese a molti, ma cerchiamo di approfondire la questione, risalendo a quanto accaduto nel secolo scorso. Ogni qualvolta qualcuno, storicamente, si appropria o cerca di appropriarsi di un diritto all’affermazione, in modo assolutistico e senza contraddittorio, dei propri valori di riferimento, si finisce per cadere, inevitabilmente, in forme di assolutismo politico, in altre parole, in qualche forma di dittatura, magari differente da quella precedentemente affermatasi, ma non per questo meno totalitaristica. In tal modo, non si va verso l’auspicato progresso, ma, al contrario, verso nuove forme di autoritarismo che impediscono la libera azione ed espressione, non solo dei singoli, ma anche degli stessi popoli nel loro complesso. Facciamo degli esempi. L’ideologia comunista ebbe molta presa e diffusione perché si basava su concetti semplici, di facile comprensione, e sembrava apportatrice di grandi progressi etici e sociali. Di fatto, storicamente, così non è stato: non ha prodotto nulla di quel che andava decantando, né in termini economici né sociali, ha prodotto, invece, miseria diffusa, ingiustizia e sopraffazione in ogni paese dove è riuscito ad andare al potere. Qualunque forma di dissenso è stata regolarmente stroncata, anche se nata all’interno dello stesso potere egemonico con l’intento di migliorare il sistema stesso e non di rovesciarlo o mutarlo drasticamente. La causa di tutto ciò sta nello statalismo che ne costituisce la base. Infatti, se ogni cosa viene decisa dall’alto senza discussione democratica e senza contraddittorio è chiaro che a godere di diritti effettivi sono solo i soggetti che fanno parte della classe dirigente, gli unici ad avere benessere e potere. Costoro non solo non sono interessati a condividere i propri privilegi con altre classi sociali, ma lottano strenuamente per impedire che ciò accada. Basti ricordare la fine di Trotskii, avversato e poi fatto uccidere da Stalin. Si potrebbero, poi, citare anche i contrasti dell’URSS con i paesi dell’est europeo, desiderosi di maggiore autonomia, o con l’Italia di Berlinguer, che affermava di volersi ispirare a una forma di socialismo, più aperta all’occidente e agli Usa (e che questa fosse la strada naturale da seguire lo dimostrarono le vicende che seguirono col definitivo abbandono della sigla PCI, Partito comunista italiano, e la scelta di chiamarlo PDS e poi semplicemente PD). Viene da sorridere se si pensa che, fin dal tempo della scissione di Livorno del 1921, tra un’ala più estrema dei socialisti (comunisti) ed una più moderata, le accuse e gli insulti che venivano regolarmente rivolti ai moderati erano molto pesanti, includendo spesso persino quello di “fascisti”. I socialisti, in realtà, non erano dei “traditori della giusta causa comunista”, ma solo persone che si erano rese conto che il benessere delle classi sociali disagiate passava necessariamente dallo sviluppo economico, benessere che viene favorito dalla libera attività imprenditoriale e non da un rigido dirigismo statale. Del resto, che dire allora della politica portata avanti, in Italia, dal PCI dopo la seconda guerra mondiale, divenuto alleato stabile del gotha industriale nazionale? Si trattava, insomma, di due differenti teorie economiche, con i comunisti che realizzavano una sorta di “capitalcomunismo” e i socialisti (alleati dei democristiani e di altri partiti centristi) che appoggiavano la libera iniziativa e il ceto medio al fine di realizzare (almeno in parte) una migliore distribuzione della ricchezza. Va ricordato, infatti, che in Russia, alla fine della prima guerra mondiale, si passò dall’imperialismo degli zar all’imperialismo sovietico, senza alcuna svolta democratica che potesse fare del popolo un vero protagonista. La conseguenza fu che dal punto di vista economico non cambiò molto: lo stato zarista era dirigista e tale rimase lo stato russo anche dopo, con i bolscevichi al governo, ma con l’aggravante di precludere ai capitalisti ogni autonoma attività imprenditoriale, anche piccola. In verità, le forze democratiche russe, inizialmente, avevano cercato di formare un governo moderato, ma non vi erano riuscite, sopraffatte da quelle più estremiste con i risultati che sappiamo. Anche al giorno d’oggi c’è chi, vituperando l’operato delle democrazie occidentali, sicuramente con molti validi argomenti, continua a vagheggiare varie forme di dittatura, considerandole sistemi politici migliori, ma non va dimenticato che qualunque tipo di progresso si basa sulla libertà di pensare e di agire, cosa che le dittature non consentono. E veniamo al “politicamente corretto”. Questo, tutt’altro che un’affermazione democratica, non è altro che una forma di ideologia chiusa, un sistema di pensiero progettato nelle stanze del potere che esclude qualsiasi contraddittorio e non ammette la ben che minima critica perché, come avveniva nel regime sovietico, chi dissente viene emarginato, sottoposto alla gogna mediatica e indicato alla pubblica opinione come un “nemico del popolo” (Rivoluzione francese docet). Il problema di questo tipo di ideologie è che, fintanto che rimangono distaccate dal mondo reale tutto funziona a meraviglia, ma quando le si cala nel mondo reale i conti non tornano più. Facciamo degli esempi pratici, ma realmente accaduti. Uno straniero, da anni residente in Italia, affitta una casa a un altro straniero, appartenente, però, a un altro paese di origine. Quest’ultimo, a un certo punto, non paga più l’affitto al primo e questi, sentendosi truffato e non fidandosi della giustizia italiana, lo fa prendere a bastonate da un suo connazionale per riprendersi la sua abitazione. Allora, appurato quanto accaduto, la “giustizia” italiana preferisce non intervenire: essendo fieramente “antirazzista” e propensa a difendere, sempre e comunque, gli immigrati, in questo caso, infatti, non saprebbe più per chi prendere le parti. Nel caso, invece, la diatriba fosse tra un proprietario italiano e un affittuario straniero, la giustizia non avrebbe alcun tentennamento e sappiamo bene come andrebbe a finire. Un altro esempio, accaduto di recente, di quanto sia errato questo modo di procedere, è la sentenza di un magistrato che ha assolto un uomo, straniero, accusato di maltrattare la moglie con insulti e percosse perché “tale comportamento farebbe parte della cultura della sua nazionalità di origine”. Ogni commento sarebbe superfluo. Purtroppo, ormai, quanto a giustizia, siamo messi male. Se qualcuno, infatti, osasse far notare che le regole dovrebbero valere, allo stesso modo, per tutti, indistintamente, italiani o stranieri che siano, secondo le leggi vigenti nel nostro paese, l’Italia, sarebbe immediatamente definito reazionario, fascista, crudele…ma questo modo di procedere, in realtà, non solo non favorisce l’integrazione tra i popoli, che andrebbe realizzata con ben altri metodi, ma solo l’aumento della criminalità e dell’illegalità che danneggia tutti i cittadini onesti, italiani o immigrati che siano.

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